
IN OCCASIONE DI UN VIAGGIO ORGANIZZATO DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA CGIL DI BRESCIA VISITAI IL KL DI AUSCHWITZ BIRKENAU NEL 2008 CON UN GRUPPO DI STUDENTI E INSEGNANTI DI SCUOLA SUPERIORE. QUESTO E’ IL DIARIO DI QUELL’ESPERIENZA.
Brescia 9 novembre 2008. Domenica mattina. Ricordo la stazione, una moltitudine di gente. Ex deportati con gli stendardi, tanti studenti, genitori che li accompagnano, i politici, la stampa, i microfoni, telecamere, gli insegnanti. musica di una fisarmonica e di un violino. Cerco un volto amico con cui sedare l’inquietudine che mi provoca il sentirmi straniero e poi partiamo. Viaggiare in treno per ventidue ore fino a Cracovia consente di predisporsi all’incontro col campo. Il treno dilata i tempi e comprime i sentimenti. Ci porta a connettere pur flebili analogie con i deportati di allora. Facilita un processo di identificazione. Si respira il desiderio di vedersi , adulti e giovani. Di incontrarsi, di parlarsi. Ognuno serba per sé parole che col trascorrere del tempo diverranno via via più gravide fino a partorire una domanda: perché vado ad Auschwitz? Cosa mi porta là?
Il sussulto dei binari scandisce il viaggio. Alla frontiera di Tarvisio mi piglia un tonfo al cuore. Non ho con me la carta d’identità!
Il sussulto dei binari scandisce il viaggio. Alla frontiera di Tarvisio mi piglia un tonfo al cuore. Non ho con me la carta d’identità! Non la porto mai che si sciupa! A che mi serve? Così sentirmi un “clandestino” non è più una metafora, e arranco per i vagoni con la vista che si annebbia. Le guardie salgono sempre, mi dicono, sia alla frontiera con la Cekia che con la Polonia, fanno controlli a tappeto . Se mi trovano è un casino, rischiamo di far fermare il treno o peggio di dover attendere i documenti da casa, oppure ancora di tornare indietro. Mi nascondo nella cambusa dietro pile di forme di formaggio, ceste di scatolame e salumi intrecciati sopra il capo. Col cuore che mi esce dalla gola, spio alla frontiera dal finestrino le guardie che ammiccano all’entrata del mio vagone. Fanno per entrare e poi rinunciano , poi ci ripensano . E’ così fino a notte fonda quando da clandestino torno nella mia cuccetta e prima di addormentarci la voce di d. Fabio ci ricorda che è la notte dei cristalli. Esattamente 70 anni fa , il 9 novembre 1938 iniziavano le persecuzioni antiebraiche. In molte città d’Europa, le vetrine dei commercianti venivano frantumate e le case incendiate. Ci addormentiamo, e anche noi come loro, attendiamo la luce dell’alba.
Cracovia è bellissima. Case basse, vicoli e piazze di pietra, stradine tortuose. Il magnifico Castello. Visitiamo il ghetto e le tracce che ne rimangono. Thomas, la guida ci dice che un tempo prima della guerra, la città era animata da una comunità di migliaia di ebrei. Tante sinagoghe disseminate ora trasformate in musei e case d’arte perché da allora sono rimasti poco più di un centinaio di fedeli che frequentano un unico luogo di culto in attesa di un rabbino. A volte il passato non passa.
La visita al campo è un pellegrinaggio laico, una meditazione sull’esistenza.
La visita al campo è un pellegrinaggio laico, una meditazione sull’esistenza. Un dolente incontro con il filo spinato, le baracche putride, le camere a gas, i forni. Incrocio l’invocazione di Primo Levi: non basta, non serve dire: “Mai più!”. Accade ancora, è accaduto ancora. Il genocidio è ancora una forma di risoluzione dei conflitti, di composizione del dissenso, di acquisizione di mercato. Ma è genocidio anche quello delle coscienze di fronte all’indifferenza se non si interrogano più e rimangono ammutolite , annichilite, impaurite, rattrappite. Bisogna trovare le parole per raccontare e per rievocare. Mi chiedo: perché alcuni testimoni dello sterminio attendono anche quaranta, cinquant’anni per raccontare? Di quali permessi hanno bisogno? Da quanti tentativi di dare voce al proprio ricordo sono sopravvissuti? Come si fa ad ascoltare la loro memoria senza negare la propria umanità?
Con alcuni compagni di viaggio ci troviamo al “bosco delle betulle” il Birkenau, per sostare col pensiero come direbbe il poeta Mario Luzi, alla ricerca di un alfabeto che dia senso a quello che stiamo vedendo. I nostri volti muti e straniti evocano la condizione dei deportati, cogliamo tutto il dissidio tra la necessità di raccontare e l’impossibilità di farlo.
Scrivere offre pertugi di fuga fatti di parole l’una in fila all’altra come rane d’inverno…
Ci proviamo con una penna e un foglio. Scrivere offre pertugi di fuga fatti di parole l’una in fila all’altra come rane d’inverno che evadono da sotto il filo spinato ed evitare così che il campo ti rimanga dentro per sempre, affinche “dentro e fuori” finalmente si compongano. Il senso più sollecitato è la vista. Ma cosa ho visto? Guardare, vedere, osservare. Che semplici gesti, innocui, naturali! Eppure mi appaiono invadenti, minacciosi, irrispettosi e mi obbligano a pensare. Pare quasi che il mio sguardo si abitui, prenda le distanze, si aggrappi in ogni modo alle forme rendendole o cercando di renderle comprensibili. Così facendo tenta di normalizzarle. Normalizzare la tragedia è una soluzione adattativa ma il prezzo da pagare è altissimo: conduce a rinunciare a pensare e ad interrogarsi, alla rassegnazione, a prostituire la propria umanità.
L’itinerario della nostra visita è costellato da storie, immagini e soprattutto dai numeri: 600 donne, 1000 bambini, 10000 russi, 150000 ebrei ungheresi, 2000 vecchi…ci accorgiamo di perderne la consistenza e la dimensione. Rischiano, quei numeri, di trasformarsi in inermi suoni vocali. e in molti finalmente ci concediamo di piangere.
Perché abbiamo così paura delle emozioni?