Ho visto il bellissimo film di Stephen Frears che racconta la storia struggente e coraggiosa di Philomena. Se non lo avete ancora visto non leggete questo articolo (ma andate a vedere il film!). La storia si può leggere a mio parere a più livelli: come una operazione di ricerca storica, come ri-costruzione sociale dell’identità, come una indagine sul complesso rapporto tra perdono e giustizia, come memoria famigliare. Philomena è una anziana signora ottantenne che consapevole di avere ancora pochi anni di vita, decide di ritrovare il figlio che le fu sottratto e poi venduto ad una coppia benestante, quando aveva tre anni in un convento di suore nel quale era stata rinchiusa allora ventenne, a causa di una gravidanza…irregolare, ossia fuori dal matrimonio. Il dramma si svolse nell’Irlanda fondamentalista degli anni ‘50 e ‘60, dove moltissime (si calcola più di trentamila) donne e ragazze madri, alcune quattordicenni, vennero letteralmente segregate nelle cosiddette case Magdaleine, ossia conventi lager, e costrette a subire angherie e umiliazioni di ogni sorta per espiare la “loro colpa”. I fatti di cui parla il film sono realmente e tragicamente accaduti e svoltisi nel monastero di Rosscrea nella regione Irlandese del Munster. Se ne trova una ampia documentazione corredata da testimonianze ad esempio a questo link: http://giacintobutindaro.org/tag/sex-in-a-cold-climate/(sesso in un clima freddo).
Philomena va alla ricerca del figlio che ha perduto tanti anni prima, scopre che è morto di aids, che non ha mai smesso di pensare a lei e che ha voluto essere sepolto proprio nel convento dove le venne strappato ancora bambino tanti anni prima. Quando Philomena scopre tutto questo anche grazie all’aiuto di un giornalista scrittore che la accompagna in questo toccante viaggio nella sua memoria famigliare, e si trova a tu per tu con l’omertà imbarazzata delle suore che negano l’evidenza dei crimini commessi dopo aver nascosto la compromettente documentazione, preferisce perdonarle che sapere la verità e quindi accusarle. Perchè lo fa? Questo perdono non mi convince e azzardo una interpretazione. Accusare le suore di aver perpetrato ai suoi danni un crimine orribile avrebbe comportato per Philomena perdere affettivamente per sempre l’unica famiglia che si occupò di lei dopo che quella biologica la ripudiò. Meglio dunque sentirsi ancora la disgraziata ragazzina che doveva espiare per tutta la vita il suo errore e perdonare. Il film propone una immagine di religiose crudeli che senza alcuna pietà angariavano sadicamente le ragazze madri che vivevano con loro. In realtà come ben documentato da numerose fonti storiche, le religiose si limitavano ad eseguire ordini e direttive. Tutto ciò infatti non avrebbe potuto avvenire senza l’approvazione delle gerarchie sia ecclesiastiche che politiche del tempo che per evitare di rinfocolare ulteriormente il già difficile rapporto tra cattolici e protestanti insabbiavano in questo modo situazioni diciamo così…incresciose. Il prezzo che Philomena paga per non sapere o vedere la verità è il perdono. Ma si può davvero chiamare così? Quante, come Philomena hanno pagato questo prezzo e quante madri e figli si stanno ancora oggi cercando? E allargando lo sguardo ad una prospettiva più ampia: cosa significa in termini laici perdonare? Quali le condizioni per una riconciliazione tra vittime e persecutori? Una ricostruzione degli eventi, delle cause, dei responsabili può favorire il perdono o ne è addirittura imprescindibile? Qual è il ruolo della voce e testimonianza delle vittime in un processo di riconciliazione?