Barbara 17 anni, si sistema la tshirt, butta indietro il ciuffo, si mette in posa. Punta il suo smartphone sul suo volto e scatta. Digita velocemente e trasferisce il selfie sulla sua pagina facebook. Sotto, frenetica, mette una didascalia di ‘smack e ciao!’ Frequento i social network per lavoro e interesse personale. Le tecnologie multimediali offrono straordinarie possibilità di comunicazione e informazione. Internet si intesse ormai quotidianamente con la nostra esistenza. E’ una presenza ineludibile, costante, talvolta invadente. Seppur virtualmente, grazie alla rete, intratteniamo rapporti con comunità estese di amici, colleghi o sconosciuti con i quali condividiamo passioni e interessi comuni. Sulla rete ci si confronta, ci si incontra, si scambia musica, libri, immagini, video, film. La rete è anche un luogo dove cazzeggiare (si può dire?), cioè bighellonare senza una meta prefissata. Così, per il gusto di vedere che succede e chi c’è. Un po’ come far le “vasche sul Corso” : un’occhiata alle vetrine e alle persone, due passi in centro, soste veloci, chiacchiere sincopate, su e giù dal bus. La rete riflette un bisogno ancestrale, atavico, primigenio: quello di comunicare , di interagire, di conoscere e riconoscersi appartenenti ad un qualche agglomerato umano; soprattutto esprime la constatazione che esistiamo sempre in una relazione. Tempo fa circolava uno spot che credo festeggiasse i primi dieci anni di fb. Belle immagini, ritmo incalzante, molti sorrisi, gente in movimento, colori a bizzeffe, inquadrature che andavano velocissime dai tropici ai ghiacci. La metafora chiave era costruire ponti, legami, strade, mettere in connessione la propria vita con quella degli altri. Lo spot terminava, con una frase laconica che affiorava da un oscuro spazio siderale. La frase diceva: non sarai mai solo. Essere visti, allontana il timore della solitudine, di sentirsi ai margini , di non contare. Ricordo che da adolescente i momenti di più grande angoscia erano quelli in cui gli amici non venivano a cercarmi. Interi periodi in cui nessuno mi chiamava al telefono, mi invitava a qualche festa o al cinema. Se ci penso rivivo ancora la sensazione di scoramento e tristezza che mi pigliava in quei momenti in cui temevo di non contare per nessuno. Attendevo invece con trepidazione la piccola folla di motorini festanti che assiepava il cancello di casa prima che scendessi: erano là per me, esistevo finalmente! Facebook è costellata di selfie, termine inglese che indica una forma di autoritratto fotografico realizzata principalmente attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio. Sbagliato pensare che siano soprattutto i nostri figli a scattarli. Ricordo ad esempio quello poi divenuto celebre e che fece discutere, al memorial per Nelson Mandela con il presidente Obama, la Prima Ministra danese e il ministro inglese Cameron. A chi si rivolgono quei ritratti? Perché lo facciamo? Una recente ricerca dell’Università di Milano (http://www.wired.it/gadget/foto-e-video/2014/11/07/selfie-perche-le-facciamo/) analizza un campione di 150 persone con un’età media di 32 anni (il 35% uomini, il 65% donne). I selfie si fanno principalmente “per far ridere e divertire gli altri” (39%); “per vanità” (30%) e per “raccontare un momento della propria vita”(21%). Se non ci fosse un destinatario, un pubblico o la consapevolezza di un altro cui mostrare il nostro volto questa pratica non avrebbe probabilmente senso. Come Ulisse alla corte dei Feaci quando udì la propria epopea narrata dal poeta di corte sciogliendosi in pianto, scopriamo di esistere in una storia che altri raccontano di noi, e dunque che la nostra stessa identità dipende dallo sguardo di un altro. Ne è inevitabilmente intrecciata. Quelle immagini sincopate, sfuocate, scentrate a talvolta arroganti di volti che ci guardano dal web celebrano tutta la fragile condizione umana che ricerca nello sguardo dell’altro il senso della propria esistenza. Accendo il tablet, lo rivolgo verso di me e scatto: c’è qualcuno?