RIANIMATORI DI MEMORIE. Diario di un workshop di tecniche autobiografiche e narrative nella relazione di cura


Immagini, parole, di-segni dal seminario presso la coop. soc. Ruah di Bergamo. 

Il seminario RIANIMATORI DI MEMORIE, si è svolto nel corso di due giornate intensive 7 e 21 dicembre 2019, coinvolgendo 15 operatori che operano professionalmente nei servizi della cura sociale, educativa, sanitaria tra cui: infermieri, educatori, psicologi, pedagogisti, medici, animatori culturali,  finalizzato ad apprendere esperienzialmente tecniche di scrittura e narrazione autobiografica alternando linguaggi espressivi- estetici, e riflessivi-teorizzanti sull’esperienza e il significato dell’impiego della scrittura autobiografica come cura, trasformazione, resilienza. Nel corso del lavoro che qui riassumo nei passaggi essenziali,  abbiamo intrecciato racconto orale, scritture autobiografiche, linguaggi simbolici, momenti teorizzanti ed elaborativi sulle implicazioni curative e trasformative della scrittura di sè nella relazione d’aiuto. Un particolare ringraziamento per il contributo di pensieri, scritture, azioni e di-segni ai/le partecipanti:  Gloria Albani, Andrea Baroni, Elena Brattini, Giada Cola, Barbara Cortesi, Veronica De Marmels, Daniela Testa, Rita Finco, Luisa Giuliano, Antonella Lucchese, Tiziana Mantovani, Ilaria Quarteroni, Anita Salvi, Giulia Santinelli, Jasmine Vargas, Anna Maria Belotti.

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I TRANCHE: LA MAMMA ERA UNA GRANDE ARCA. Scrivere e/è ri-nascere.

La mamma era una grande arca
io galleggiavo nel soffio
quando il tempo mio
scalciava
per cominciare.

La mamma era una forte nave
in cui navigavo addormentata
carica del mio nome e della contrada
e di un sogno terrestre.

La mamma era mia casa allora
una tana, un guscio, un’enorme noce
di latte. Una patria in cui stavo
rannicchiata. Silenziosa
in alto raccoglimento
per quel grido, quel pianto
quando la camera esplode
per una voce che prima non c’era
e adesso è la mia.

(M.Gualtieri, Le giovani parole)

Nello spazio al centro della stanza sono distesi grandi fogli di carta velina bianca che evocano un grembo materno. Ci disponiamo a nascere seduti attorno.

Per di-segnare: ripensa alla tua nascita, il primo gesto di cura che hai vissuto. Cerca di dare voce al corpo e al tuo immaginario ed esprimi l’emozione di quel momento con i colori.

“vi posammo  gesti di nascita/misteriosi disegni  di tutte /le storie che ci misero  al mondo”

Per scrivere: ripensa alla tua nascita e raccontala in prima persona, fai raccontare il corpo: quando avvenne? Era giorno? pioveva? Chi c’era accanto a te? Cosa vedesti per prima cosa e per ultima?

Poi ci facciamo grembo, utero, ventre. Per ascoltare le storie delle nostre nascite alziamo delicatamente e tutti insieme il grande foglio di carta velina fino a ripararci sotto, come una grande e delicata coperta. Che sorpresa, è tiepido e la luce vi filtra soffusa! Qualcuno mentre ascolta, si accuccia.

Per pensare: Quali sono le potenzialità generative della scrittura di sè? Cosa mette al mondo? cosa fa ri-nascere? come lo fa ? Con quali movimenti e azioni cruciali? Mettiamo poi al mondo la nostra teoria dedicandole una ninna nanna, una filastrocca, una canzoncina.

‘quando la mamma era una grande arca’…

 

 

 

 

 

II TRANCHE: PAESAGGI DI ME. Mappe e scritture per una biografia migrante.

“Il caffè può essere un caffè qualsiasi, l’ordinazione anche/ma quando attendo, stretto dall’ansia di chi attende/faccio delle mie dita tempesta agitando gli spiccioli che ho in tasca/di sicuro laggiù nel buio di cotone dei calzoni/puoi ascoltare teste o croci/sovvertirsi e rincorrersi, nell’affollato tintinnio di metallo/avvertire l’attrito di ciò che prima era verso/ricomporsi in recto e mentre ansia,/burrasca diradano in bonaccia al passo della cameriera che appare/sospettare tu il miliardesimo eletto di avere tenuto in tasca/ la direzione e il senso dell’universo intero”.  (P.Cappello, Azzurro elementare)

Partiamo dal gesto, spargiamo caffè , usando il cucchiaino come pennello, pasticciando con i confini del foglio.

E poi un invito ad uno sguardo visionario: ‘quella che abbiamo di fronte è la mappa della nostra vita!’ Un arcipelago di isole, penisole, golfi, scogli, dirupi, foreste, spiagge, gorghi. ne costeggiamo, anzi corteggiamo i confini con una penna.

Per ogni ‘località ‘ della nostra mappa facciamo un gioco di analogie: cerchiamo un momento, fase o passaggio della nostra vita come fosse un luogo e lo associamo. Affiorano paesaggi fantastici e territori interiori: la spiaggia dei momenti felici, il promontorio figlio, lo scoglio della mia separazione, la laguna del lavoro, la prateria dell’aborto, ecc. Una toponomastica degli affetti.

Per scrivere di sè: scegli una ‘località’ della tua mappa e rievoca un momento particolare ad essa collegato nella tua vita: cosa accadde? dov’eri? cosa ricordi? Poi con uno sguardo d’insieme chiediti: quali rotte/direzioni/traiettorie sento di aver percorso nella mia vita? Da dove sono passate? Dai loro un nome e tracciale sulla tua mappa!

Per pensare: in quali ‘luoghi’ (reali o simbolici) ci conduce la scrittura?  Come naviganti, esploratori, camminatori condividiamo atlanti di teorie di luoghi ora impervi, ora fragili o suggestivi  nei quali la scrittura di sè conduce dando loro forma come fossero parti di una nuova mappa.

Atlanti dell’immaginario nel quale tracciammo

le rotte che ci attraversarono.

Fu a quel miraggio che dedicammo una danza.

 

III TRANCHE: LE PIETRE PAROLE. La scrittura di sé come resilienza,riscatto, speranza.

“Cosí diceano; e Priamo ad Elena volse la voce:
«Vien pure avanti, siedi vicino a me, figlia mia,
ché tu veda l’antico tuo sposo, e i congiunti, e gli amici.
Colpevole non sei tu: colpevoli sono i Celesti,
che suscitâr contro me degli Atrídi la guerra funesta.
Il nome di quell’uomo dimmi ora, di forme giganti,
chi mai sia quell’Acheo, sí nobil d’aspetto, e sí grande.
Altri potrà soverchiarlo del capo, aver membra piú salde;
però questi occhi mai non videro altr’uomo sí bello,
né maestoso cosí: mi sembra, a vederlo, un sovrano» (Iliade, Omero, canto III)*

Mentre le parole pietre sono lanciate, le pietre-parole sono stabili, fedeli, sono prodotti sapienti e pacifici delle mani umane. Le parole pietre colpiscono , distruggono. Le pietre parole accolgono, ricordano, sono fedeli, accoglienti, testimoniali. Nello spazio sono sparse diverse pietre, ci aggiriamo tra di loro, le prendiamo in mano, ne  ascoltiamo il suono che fanno quando rotolano. Ora pare un borbottio, ora un segreto sussurrato.

Per scrivere: cerca nel profilo di una pietra in particolare, il volto di una persona amata mentre viveva un momento di dolore, sofferenza, abbandono…racconta come se fossi lei/lui: cosa ricorda, cosa accadde? Poi chiediti: chi è la persona che hai ricordato, cosa rappresenta per te, che momento fu per la sua vita? E per la tua? Un dialogo di pietre parole…

Ascoltammo storie resilienti  di:

padri che hanno amato come nessuno; ‘Possiamo chiamarlo Paolo’; insegnanti che combatterono senza arti fin dalla nascita; madri viste solo dalla nuca; sorelle che rimettono in gioco; madrine che tengono insieme maschile e femminile; Affan di Africa  e onde che un giorno ritornò a casa; madri e padri che se ne andarono nella notte; Carla che al termine dei giorni aprì il suo cuore e lasciò felicità in testamento; figlie che insegnano a fare un pezzo di vita insieme; madri bambine che attraversarono da sole una notte senza ciuccio.

 

Concludiamo il percorso con una pratica rituale che riprende simbolicamente il percorso svolto:  ‘palpitare di nessi’. Trascriviamo  freneticamente frasi a caso prese dai nostri scritti  su pezzi di carta colorata che poi strappiamo e ammucchiamo al centro in un calderone palpitante di versi sparsi. Ne prenderemo a piacere per ricomporle in una nuovo ordine e sorprenderci, stupirci, spiazzarci. Sembra che le parole si cerchino per accoppiarsi in un nuovo senso! Ci lasciamo così, palpitando di tutte le nostre vite.

 

 

 

 

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